La giurisprudenza è molto interessata a fornire strumenti normativi chiari sull’uso di WhatsApp: c’è una nuova legge da rispettare.
Da anni WhatsApp si presenta come una delle principali piattaforme di comunicazione in Italia. E tutto ciò che succede al suo interno, anche in contesto virtuale, può avere rilevanza giuridica. In pratica, gli innumerevoli messaggi che vengono ogni giorno scambiati tramite l’app possono implicare reati, condotte censurabili e punibili o rivelarsi prove importanti in un giudizio.
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Tali contenuti, che esprimono importanza nella vita privata di ciascuno, sia in ambito personale che lavorativo, hanno quindi un peso anche legale. Non è così strano: oramai WhatsApp si usa anche per discutere di contratti, contenziosi e accordi… Ed ecco perché tutto ciò che succede nella app di messaggistica va regolamentato in modo chiaro.
C’è in gioco la certezza del diritto. Le chat su WhatsApp rientrano, per definizione, nella categoria dei documenti informatici. Contenuti che la giurisprudenza riconosce come elementi di prova, a condizione che rispondano a tre caratteristiche. L’integrità, l’autenticità e la non modificabilità.
Dopo qualche anno di relativa incertezza, il legislatore e i tribunali si sono perciò impegnati per capire in che modo i messaggi di WhatsApp possano valere come prove in giudizio. Pur non essendoci una legge specifica che disciplini esplicitamente il valore giuridico dei messaggi su WhatsApp, il quadro normativo è più o meno definito.
I riferimenti chiave sono il Codice dell’Amministrazione Digitale e le linee guida in materia di conservazione sostitutiva e sicurezza dei dati. Strumenti fondamentali che tutti i giudici usano per valutare la validità probatoria di messaggini e altri contenuti condivisi sulla app.
La legge che cambia il peso dei messaggi inviati su WhatsApp
Diverse pronunce dei tribunali e, in ultima analisi, della Corte di Cassazione hanno confermato che i messaggi digitali, inclusi quelli di WhatsApp, possono essere ammessi come prove giuridiche. Ma, nonostante il punto chiave dell’ammissibilità dei messaggi inviati sulla app di messaggistica come prova, la Cassazione ha di recente posto l’accento anche su altre questioni fondamentali. Per esempio, sulla necessità di tutelare la privacy degli individui.
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La Cassazione ha infatti ribadito che i messaggi di WhatsApp hanno natura di documenti ai sensi dell’articolo 234 del Codice di procedura penale. Possono quindi essere usati come prove documentali nei procedimenti giudiziari, sia penali che civili. Ciò è stato determinato con la sentenza n. 27222 del 13 luglio 2019. Per essere validi, però, i messaggi inviati su WhatsApp devono essere acquisiti seguendo le modalità previste dalla legge. Uno screenshot dello schermo che contenga i messaggi può valere come prova, ma solo se non è stata manomessa. La Corte ha però spiegato che non è sempre necessaria una perizia tecnica per certificare l’autenticità di tali prove.
Bisogna poi rispettare i principi di privacy sanciti dalla Costituzione e dalla normativa europea, come il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR). In un caso recente, la Cassazione ha annullato un’ordinanza perché i messaggi erano stati acquisiti senza garantire tutte le tutele procedurali.